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Don Andrea e la battaglia contro il virus: 'Ho avuto paura di non farcela quando mi hanno trasferito in terapia intensiva. Una volta uscito sono stato travolto dall'affetto dei miei parrocchiani'
BORGO VIRGILIO/CIZZOLO, 03 apr. - "Ho avuto paura quando mi hanno trasferito in terapia intensiva. Non miglioravo, facevo una gran fatica a respirare. Mi hanno messo il caschetto per aiutarmi. Sono stati momenti terribili. Devo ammettere la mia debolezza umana, non quella da uomo di Fede. Ho avuto paura di non farcela". Ma alla fine don Andrea Marchini, sacerdote 30enne originario di Cizzolo di Viadana e curato della Parrocchia di Cerese di Borgo Virgilio, ce l'ha fatta.
Dopo oltre 20 giorni di battaglia contro un menico invisibile, ma strisciante e ostico come il coronavirus, può dire di avere vinto lui.
"Adesso sto bene, per fortuna e, ovviamente, grazie a Dio - racconta all'Altra Mantova mentre sta trascorrendo l'ultimo giorno di convalescenza dai genitori a Cizzolo, prima di tornare, oggi, nella sua parrocchia di Cerese - ma questo periodo lo porterò sempre con me, nel bene e nel male".
Uno dei momenti più brutti di questa vicenda, don Andrea l'ha appena descritto, ma uno dei momenti più belli - tanto bello da essere in grado di scacciare anche le nuvole nere che si addensano nella memoria di chi, come don Andrea, ha dovuto vivere in isolamento totale nonostante la sua naturale inclinazione all'abbraccio e alla pacca sulla spalla - è stato l'enorme affetto dimostratogli dai suoi parrocchiani, dai suoi amici, dai suoi familiari. "Quando sono uscito dalla Terapia intensiva, dopo 4 giorni interminabili, una delle prime cose che ho fatto è stata quella di accendere il telefonino. Non smetteva più di suonare, centinaia di notifiche su whatsapp, su Messenger, sms. Manifestazioni d'affetto incredibili che mi hanno commosso. Tanto. E che mi hanno aiutato ad andare avanti, a continuare a lottare".
Tutto inizia il 25 febbraio, qualche giorno dopo l'annuncio del primo caso ufficiale di coronavirus n Italia, a Codogno. "Non mi sentivo bene. Ero stanco. Arrivato a casa - racconta don Andrea - mi sono provato la febbre: il termometro segnava 37.5°. Penso a un'influenza e vado a riposare. Ma la febbre va avanti per altri tre giorni e aumenta. Arriva anche la tosse".
Il 29 febbraio la situazione precipita: "Mi sentivo malissimo - spiega - e quando mi sono provato la febbre, il termometro segnava 39.2°. La febbre non si abbassava, i dolori alle ossa aumentavano. Non mi sembrava più un'influenza normale. Chiamo il mio medico di base, il dottor Sissa, che mi consiglia di andare subito al Pronto Soccorso. Allora si poteva ancora. Arrivato lì mi fanno il primo tampone dall'esito dubbio, ma i sintomi, anche secondo i medici, fanno pensare al coronavirus. Rimango in osservazione e il 2 marzo mi fanno un altro tampone, stavolta decisamente positivo. Mi ricoverano nel reparto di Malattie infettive, da allora entro in isolamento e per oltre 20 giorni non vedrò più nessuno, solo i medici e gli infermieri. Degli angeli caduti dal cielo".
La seconda lastra, rispetto alla prima, evidenzia una polmonite in stato avanzato che aveva già aggredito un polmone: "Tutto rapidissimo - dice don Andrea - in un giorno la polmonite è peggiorata tantissimo". Il parroco di Cerese rimane nel reparto di Malattie infettive per 4 giorni; la situazione sembra anche migliorare, ma improvvisamente: "Facevo sempre più fatica a respirare e i medici sono stati costretti a trasferirmi in terapia intensiva". Questo è uno dei momenti più brutti di questa storia per don Andrea, come detto: "Inizio ad avere brutti pensieri, comincia a insinuarsi in me il dubbio di non farcela. E una delle cose brutte di questa malattia è anche quella che sei sempre cosciente. Almeno io lo sono stato, anche quando mi hanno messo in terapia intensiva con la respirazione assistita. Sentivo tutto quel che dicevano i medici, gli infermieri. Vedevo tutto".
La situazione, fortunatamente, migliora, e dopo qualche giorno don Andrea viene trasferito nel reparto di pneumologia dove rimane una settimana: "Sono stato seguito benissimo - racconta - e devo ringraziare tutti i medici e gli infermieri del Carlo Poma. Professionisti eccezionali, umani e amorevoli. Mi ripeto, degli angeli". Mi hanno curato con gli antivirali, ero sempre allettao sotto controllo, perché la situazione poteva peggiorare improvvisamente". Ma non è stato così, per fortuna.
Don Andrea migliora e il 18 marzo viene trasferito all'ospedale di Asola dove rimane un'altra settimana. Lì gli viene fatto il primo tampone e poi un secodno: entrambi negativi. "Quando mi hanno detto che ero guarito - spiega con la voce rotta dalla commozione - mi sono messo a piangere". Era il 23 marzo. Una data che don Andrea non scorderà più.
Ora, per cercare di rendersi utile nella battaglia contro questo vvirus, ha accettato di donare il sangue per partecipare al protocollo di cura con sangue iperimmune di pazienti guariti immesso in pazienti malati, che vede coinvolto il Carlo Poma nella sperimentazione insieme al policlinico di Pavia. "Quando mi hanno chiamato, ho detto subito di sì. Voglio aiutare, per quel che posso lo farò".
Emanuele Salvato
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