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Sabato, 27 Luglio 6:56:am

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Incidente di percorso

Palermo TragediaMigranti-CanalediSicilia1Vivo in Islanda da quasi cinque anni. Sono venuto qui di mia iniziativa, nessuno mi ha chiamato.

Non avevo nessuna reale necessitá per farlo: avevo una famiglia, un lavoro a tempo indeterminato ben pagato e una vita sociale soddisfacente. Nessun problema inaffrontabile sul posto. Una vita normale. Se ho deciso di emigrare lo ho fatto solo perché ne avevo voglia.

Alcuni amici e conoscenti si sono congratulati, non tanto per la destinazione Islanda, ma per aver lasciato la soffocante Italia. Fra le parole usate, fra le ricorrenti c'era coraggio.

In realtá, c'e ben poco di coraggioso nell'emigrazione per scelta. Soprattuto se si parte con entusiasmo, un po' di soldi in tasca e si sceglie un paese dove, per il solo fatto di essere cittadino europeo, ti vengono riconosciuti rispetto e diritti. Semmai i problemi vengono dopo: l'ambientamento, i malintesi per la lingua e la cultura diverse, la mancanza di un sistema di relazioni a supporto dei piccoli problemi quotidiani.

Salire invece su un barcone gestito e guidato da delinquenti non per inseguire un futuro, ma bensí un presente... per me questo é coraggio.

É troppo facile definirlo disperazione, come si é letto molto (troppo) nei giorni scorsi. La disperazione deprime. Puó rendere passivi o innescare atti inconsulti, ma difficilmente porta a scelte lucide. Penso invece che, chi sale sui quei barconi, sia perfettamente consapevole di qualcosa che noi occidentiali vogliamo invece negare: che al di lá di quel mare esista un mondo dove le risorse essenziali per sopravvivere sono raggiungibili. Non a portata di mano, ma raggiungibili. Esiste, cioé, almeno una possibilitá. Da dove fuggono, invece, una possibilitá non esiste.

Ció che, forse, questi migranti ignorano é invece quello che noi occidentali, istruiti e sempre ottimisti verso le disgrazie in altri parti del mondo, dovremmo sapere: quello che accadendo, non avviene per caso. Non siamo davanti a una sequenza di eventi isolati, ma a un vero processo storico, che va al di lá dei paliativi e non si esaurirá certo con qualche, nuovo e sadico bombardamento verso persone che con la guerra convivono da tempo. Senza una stabilitá politica e un aumento diffuso del tenore di vita nell'area mediterranea e in Medio Oriente, il flusso non si esaurirá. Per questo, il primo passo é smettere di analizzare la questione partendo dal proprio ombelico, ma guardandosi allo specchio. Ammettere che le dittature dei Gheddafi e dei Mubarak facevano da cuscinetto fra l'Africa e l'Europa, e anche per questo non dispiacevano troppo all'Occidente. E accettare il presupposto che nel ventunesimo secolo, come ci muoviamo noi, si muovono anche gli altri. Pur se con mezzi diversi e con prospettive diverse.

Quando sono arrivato in Islanda, per un po' ho fatto un po' di quelle cose che gli indigeni non amano piú fare (pulire la stalla, usare il falcetto, la vanga e la zappa). Da piú di tre anni sono tornato a quella che era la mia occupazione in Italia, progetto e realizzo software. Con un risicato margine di errore, potrei affermare che sto rubando un posto di lavoro a un informatico islandese. Lui forse fará un'altra cosa, oppure si muoverá a sua volta in Inghilterra, Norvegia, Danimarca (le mete preferite dai giovani islandesi dopo il crollo della corona del 2008), dove ruberá il lavoro a qualcun altro.

Io non mi sento in colpa per questo. Non mi sento coraggioso. Non provo né orgoglio né vergogna. So che la mia foto non finirá mai nella pagine facebook di un Salvini-boy, perché io sono un italiano che si sta costruendo un futuro. E so che, come ieri sono partito, domani avrei la possibilitá di tornare e magari lo faró.

Si dirá che io ho fatto tutto seguendo le regole, non sono mai stato un clandestino. É vero, ma fra tutti i meriti che si possono riconoscere a coloro che inseguono la propria autodeterminazione, c'é qualcosa che proprio merito non é: la fortuna sfacciata di nascere nella parte giusta del mondo. Dove esistono lavoro e diritti, conquistati dalle generazioni dei nostri nonni e bisnonni, non da noi.

E, alla fine, é solo su questo fortuito incidente di percorso su cui tutta la nostra supponenza occidentale si basa.

(g.f.)


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