Luiselli fra frontiere, muri e migrazioni: 'Questa è la storia fatta di persone che hanno un grande coraggio'
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- Creato 07 Settembre 2019
- Pubblicato 07 Settembre 2019
MANTOVA, 7 set. - A Palazzo San Sebastiano ospite al Festivaletteratura Valeria Luiselli, autrice considerata una tra le maggiori voci della letteratura contemporanea.
Con il suo ultimo libro Archivio dei bambini perduti Luiselli, in un confronto con la scrittrice Michela Murgia, ha raccontato il matrimonio dei protagonisti e il loro lungo viaggio di lavoro da New York all'Arizona: la reclusione dei bambini nei centri di detenzione per migranti alla frontiera tra Messico e gli Stati Uniti e lo sterminio dei nativi americani.
"La storia narra di un viaggio da New York al confine con l'America latina, più precisamente con il Messico. Stiamo parlando della frontiera. Che cosa vuol dire scrivere un romanzo su questo evento?" domanda la scrittrice Michele Murgia.
Immediata la replica dell'autrice "Viene riportato in scena il mito della frontiera. Lo spazio al di là della frontiera è inteso come un mondo barbaro da conquistare da parte di un territorio civilizzato. Coloro che attraversano questi lunghi deserti, non vedono i cosiddetti cowboy ma vedono i droni, le telecamere a circuito chiuso e i posti di vedetta". E aggiunge "Anche alcuni luoghi italiani sono posti di frontiera, ma cosa hanno fatto gli americani? Hanno trasformato questi luoghi di frontiera in fonti di reddito".
A riprova di quanto affermato, Valeria Luiselli riporta un caso americano dove il numero di bambini rinchiusi e detenuti, sino a qualche anno fa, era un paio di migliaia. Differentemente ora con Trump la cifra supera i diecimila.
"La coppia del romanzo porta con sé i propri figli durante il viaggio. Un elemento significato è il portabagagli: ognuno di loro decide di portare con sé una scatola. La scatola dei bambini, a differenza di quella dei genitori, è vuota". Le cose non sono mai come le si vedono ma sono come le si chiamano. Il modo in cui si chiamano determina la relazione che decidiamo di avere con esse. Applicando questo concetto alla questione di confine, cambia il nome alle persone, finché sei da una parte, sei una cosa, poi ne diventi un'altra: un immigrato, un clandestino, un illegale".
Come dobbiamo chiamare le persone che si spostano? "La violenza inizia dal linguaggio. Dall'uso dell'eufemismo e della diretta disumanizzazione dell'altro". "Si parla di clandestini come se queste persone avessero come unica definizione quella di nascondersi" negli Stati Uniti si parla di Aliens che non sono alieni, ma quelli come l'autrice che possono essere tranquillamente cacciati via. Si parla di illegali" afferma la scrittrice.
Cosa possiamo fare noi scrittori e lettori? "Essere custodi attivi del linguaggio. Ho conosciuto molti bambini che cercavano di entrare in America, in cerca di asilo. Nel giornalismo potente, si pratica una sorta di disumanizzazione: le persone vengono spogliate di ogni capacità d'azione e dignità ".
Conclude la scrittrice "È la storia non di vittime ma di persone che hanno un grande coraggio".
Marina Storti
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