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Memoria: quando Jolanda Dugoni raccontava l'orrore del lager

DugoniJolanda1Riproponiamo in occasione del Giorno della Memoria uno stralcio di un reportage realizzato nel 2009 da Emanuele Salvato.

Si tratta di un'intervista a Jolanda Dugoni, deportata mantovana nel campo di sterminio di Ravensbruck, in Germania, sopravvissuta a quegli indicibili orrori e scomparsa l'estate scorsa. Il racconto fa parte del libro "Viaggio nella Memoria - 2006-2010: visite d'istruzione nei campi di sterminio di Ravensbruck, Auschwitz, Mauthausen, Terezin, Natzweiler-Struthof" pubblicato dall'assessorato alle politiche sociali della Provincia di Mantova.

Ci sembra un modo concreto e non retorico per sottolineare quanto sia importante la Memoria e quanto sia fondamentale non dimenticare quali atrocità abbia potuto commettere l'essere umano in nome di un ideale distorto, malato, folle. Sbagliato.

Abbiamo scelto di proporre il reportage nella categoria degli editoriali perché se è vero che per un giornalista è importante separare i fatti dalle opinioni, crediamo ci siano anche fatti che non lasciano spazio a opinioni, perché quello è stato. Senza se e senza ma.

«Ci avevano tolto tutto: i vestiti, soldi, le nostre cose, i capelli, la libertà, la dignità, l'umanità. Una cosa, però, non erano riusciti a levarci: il cielo. Di quello mi sentivo padrona ogni volta che alzavo, a fatica, la testa sorretta da un corpo ormai scheletrico. Il cielo mi confortava, paradossalmente anche quando veniva offuscato dal fumo proveniente dai camini dei forni crematori. Sapevo cosa bruciavano, ma tutt'intorno a me era morte e distruzione». Jolanda Dugoni, deportata numero 30562 nel lager nazista di Ravensbruck, si commuove, piange e si asciuga con cura le lacrime mentre ricorda un episodio dei molti che in due anni (è stata prigioniera dal 1943 al 27 aprile del 1945 quando inizia la sua rocambolesca fuga) ha vissuto nell'inferno del campo di sterminio situato novanta chilometri a nord di Berlino, nei pressi di Fürstenberg/Havel. Accetta di ricordare - anche se per lei è molto doloroso e a dimostrarlo sono i parecchi momenti di commozione e rabbia emersi nel corso della lunga intervista - il periodo trascorso in quel "non luogo" e lo fa a trecentosessanta gradi tirando fuori dai meandri della propria memoria fantasmi che fino ad oggi non erano mai usciti. Parla anche della sua vita prima della prigionia, difficile, da emigrante ed emarginata in una Francia che non amava gli italiani. Una vita che si è spezzata dopo aver visto con i suoi occhi, e aver provato fisicamente sulla propria pelle, a quali livelli di disumanità siano stati capaci di arrivare i nazisti nel nome di un'ideologia malata, criminale, sterminatrice.

Quella di Jolanda – che a Ravensbrück ci è tornata dopo sessant'anni, nel 2006, con due classi del liceo linguistico Virgilio, apripista del primo viaggio della memoria organizzato dall'assessorato provinciale alle politiche sociali – è una storia appassionante, fatta di sacrifici, rinunce, povertà, ma piena di dignità, onestà e amore per il prossimo. Valori appresi dai genitori e cementati da una delle scuole più formative: la vita.

I genitori di Jolanda Dugoni si trasferiscono presto in Francia, perché in Italia la situazione economica è grave e di lavoro ce n'è poco. Il padre trova occupazione come minatore nella città d Frejus, in costa azzurra. Poco dopo, siamo nel 1924, nasce Jolanda. Una volta terminato il lavoro nella miniera, la famiglia Dugoni composta di nove persone (padre, madre e sette fratelli compresa Jolanda) è costretta a trasferirsi a pochi chilometri da Frejus, a Saint Raphael, incantevole località sul mare sempre in Costa Azzurra. Il padre si ricicla come muratore e costruisce le case di villeggiatura dei ricchi che tanto contrastano con la miseria dei quartieri periferici in cui è costretto a far vivere la propria famiglia. Siccome la sfortuna spesso si accanisce su chi è già sfortunato, l'autunno molto piovoso fa straripare i fiumi della zona e provoca un'inondazione che distrugge, tra le altre, anche la casa in cui vive la famiglia Dugoni: «Mi ricordo – racconta mentre si pulisce gli spessi occhiali con una pezza – che siamo saliti tutti sul tetto della casa. Poi, dopo un po' di tempo, è arrivata una barca che ci ha tratti in salvo. Ma che paura». Tutta la famiglia di origini italiane viene trasferita in una stanza di fortuna, in attesa di tempi migliori. Ma i tempi migliori tardano ad arrivare, la miseria, quella invece aumenta e la fame con lei. Sette bocche da sfamare non sono poche. Per questo la madre di Jolanda si cerca un lavoro e lo trova come donna di servizio presso un ricco ebreo della zona. Il padre, intanto, continua a fare il muratore, spaccandosi la schiena sotto il sole oppure sotto la pioggia, al freddo o al caldo, a seconda delle stagioni. Il tutto per pochi soldi. Jolanda è piccola, non può ancora lavorare per dare il proprio contributo alla famiglia. Va a scuola, ma forse avrebbe preferito faticare: «Ci trattavano come cagnolini – ricorda con tristezza – e ci emarginavano. Ai francesi era vietato parlare con gli italiani. Ci chiamavano "macaroni" e ridevano di noi: "I macaroni suonatori di violino vanno dietro in fondo all'aula. Vietato parlare con loro", diceva la nostra insegnante. Le uniche a trattarci bene e a farci sentire come gli altri bambini erano le suore domenicane del convento vicino alla scuola, dalle quali andavano ogni tanto perché ci davano qualche caramella». I cambi di casa sono frequenti, le zone in cui Jolanda va a vivere sono sempre periferiche. A 15 anni, dopo aver smesso di andare a scuola dove veniva presa a pesci in faccia e discriminata continuamente, la giovane italiana si cerca un lavoro. Dopo averne cambiato qualcuno trova occupazione piuttosto fissa come cameriera in un bar ristorante sulla strada principale di Saint Raphael. Siamo nel 1941, Jolanda lavora ancora nel locale sulla promenade.

L'Europa è in fermento, la guerra e Hitler la stanno mettendo a dura prova. Un giorno, mentre è al lavoro, la giovane Dugoni vede passare un sacco di gente con la valigia in mano. «Istintivamente – dice – chiedo alla padrona chi fossero quelle persone e dove stessero andando. Lei s'incupisce, abbassa lo sguardo e mi dice, sottovoce, "non sono cose che ti interessano. Continua a lavorare". Incuriosita mi avvicino a uno degli uomini in fuga e gli chiedo: «Chi siete? Dove state andando?». Quello, un ragazzo giovane, mi dice di chiamarsi mister Martini e di essere ebreo. "Stiamo scappando in Italia, verso Genova, dove c'è una nave che ci aspetta per portarci via dall'Europa. Qui siamo perseguitati non lo sai?". Cado dalle nuvole. Non so nulla. Nemmeno cosa significhi ebreo. "Vedrai che un giorno lo saprai", mi risponde sibillino il signore, che poi se ne va di fretta». Senza saperlo Jolanda ha appena firmato la propria condanna. Il giorno dopo davanti al ristorante si ferma un furgone della polizia francese, che, come noto, collaborava con i nazifascisti. Due agenti entrano di corsa nella sala e, guardando dritto negli occhi la ragazza di origine italiana, le chiedono: "Sei tu Jolanda Dugoni Macaroni?". Lei, spaventata, risponde «sì, sono io. Che succede? "Seguici, sali sul furgone. Devi venire in centrale con noi, dobbiamo parlarti" mi dicono. Una volta in questura mi portano in uno stanzino e due poliziotti in borghese iniziano a farmi delle domande: "Perché stai aiutando gli ebrei a fuggire? Con quanti di loro sei in contatto? Dicci i loro nomi". Io rispondo che nemmeno so cosa significhi essere ebreo e che non stavo aiutando nessuno, anche perché non sapevo nemmeno che stessero fuggendo. Evidentemente qualcuno mi ha vista parlare con mister Martini e l'ha detto alla polizia. Da qui la loro convinzione che io stessi aiutando gli ebrei in qualche modo». Jolanda non parla, perché non sa cosa rispondere. I poliziotti la picchiano, la insultano, la spintonano, la umiliano. Ma non ottengono nessuna risposta, ovviamente. La rinchiudono in una cella e la notte successiva la trasferiscono nelle prigioni di Frejus. Dopo qualche giorno, sempre di notte, la portano alla stazione ferroviaria della località francese e la caricano, con altri prigionieri, su un vagone bestiame. Il viaggio dura tre lunghissimi giorni, la meta ai passeggeri è sconosciuta: «Eravamo ammassati come animali - racconta - e non riuscivamo a muoverci. Ci facevamo la pipì addosso l'uno con l'altro. Uno gridava, l'altro piangeva. Nessuno ci dava da mangiare e da bere. Era terribile». Si ferma per un istante per riprendersi dall'emozione che la porta alle lacrime e prosegue: «Dopo tre giorni arriviamo in una grande stazione, in Germania, a Lipsia per l'esattezza. Lì mi vengono a prendere con dei camion e mi portano in una prigione dove rimango per circa sei mesi. Una notte, improvvisamente, mi buttano giù dal letto e mi caricano, con altri prigionieri, su dei camion che partono subito destinazione Fürstenberg/Havel e di lì a piedi per tre chilometri fino al campo di concentramento di Ravensbrück». Una volta arrivati i deportati vengono schedati, spogliati e lavati. Le docce si trovano in uno stanzone sotterraneo. Sollevando la testa Jolanda arriva a vedere fuori dalle finestrelle che circondano il locale: «Vedevo passare delle persone magre e pelate, sembravano tutti scheletri. Credevo di essere finita in campo maschile, invece erano donne senza capelli, completamente rasate». Dopo la doccia anche lei viene rasata a zero. La sua nuova casa, ora, è la baracca numero 7. All'interno ci sono altre italiane: una signora di Roma, due partigiane di Gorizia. «Non dire che sei italiana - è il consiglio della prigioniera romana, internata perché nascondeva un partigiano -. Qui ci odiano». Jolanda è spaventata, terrorizzata. La Kapò del lager le appiccica un triangolo rosso (prigioniera politica) sulla divisa a righe e le urla in faccia: «Tu ora non ti chiami più Jolanda Dugoni. Da oggi sei la prigioniera numero 30562, ricordatele bene queste cifre e imparatele a memoria, in tedesco». Se questo non è l'inferno, poco ci manca pensa la ragazza italiana.

La vita nel campo si rivela subito dura. All'alba l'appello, una brodaglia indecente a colazione e poi a lavorare tutto il giorno: «Fuori dal campo, sulla sinistra - spiega Jolanda, che la struttura del campo ce l'ha impressa nella mente e se la ricorda come se ci fosse stata solo ieri - c'era una montagna di sabbia. Il nostro lavoro consisteva nello spalare la sabbia da un posto all'altro. Per tutto il giorno. Io non ne potevo più, ero stremata e pregavo dio che mi facesse resistere, altrimenti, se fossi caduta, mi avrebbero uccisa e bruciata nel forno crematorio». La sera, dopo una cena a basa di acqua sporca e rape, le prigioniere crollano nel letto. Ma c'è anche chi non ce la fa: «Ogni tanto - ricorda Jolanda - durante la notte qualche prigioniera, malata e allo stremo delle forze, crollava improvvisamente a terra e veniva portata fuori, al freddo. E lì moriva. Poi al mattino presto passava la carriola delle guardie che caricava i morti lungo i sentieri del campo e li portava in una baracca». Una baracca che Jolanda scopre un giorno, quasi per caso: «Ero stanca, volevo andarmene, forse stavo impazzendo. Presa da un raptus esco dal mio blocco e corro nel campo fino a quando, nella nebbia, incrocio una baracca. Apro la porta e davanti a me si presenta una scena apocalittica: centinaia di cadaveri ammassati uno sull'altro in attesa di essere cremati. Erano tutti pelati, pallidi, erano belli. La morte non mi faceva paura, ma vedere quell'immagine è stato devastante». Si ferma, piange. Il ricordo di quel momento è straziante per lei, ma prosegue il racconto. «La domenica - dice -si aveva qualche ora di libertà e, quando non ci si spidocchiava, si passeggiava nell'area consentita all'interno del lager. C'era di tutto ed era pericoloso. C'erano le russe che barattavano ogni cosa, c'erano le polacche che zoppicavano con le gambe piene di cicatrici». Queste ultime erano state soprannominate le "lapin", conigliette. Erano loro le cavie preferite dal dottor Karl Gebhardt per gli esperimenti sul processo di rigenerazione di ossa, muscoli e nervi. Alcune di loro subirono amputazioni degli arti inferiori, altre fratture che causarono la particolare andatura da conigliette, come poi vennero soprannominate. Con il passare dei giorni il fisico di Jolanda è messo a dura prova. Sul corpo le compaiono piaghe da avitaminosi e al mattino, durante all'appello con meno 10 gradi e vestita solo di una giacca a righe, pantaloni e zoccoli di legno senza calze, viene sorretta dalla compagne e nascosta, perché se i nazisti le avessero visto le piaghe l'avrebbero eliminata. Si ammala, le viene la febbre molto alta ed è ricoverata nell'infermeria del campo, soprannominata River, perché sorgeva vicino a un fiume: «Stavo malissimo - ricorda - ma dovevo reagire perché altrimenti mi avrebbero gasata e bruciata nel forno. "Vedi quel fumo - mi disse Jasmine, una ragazza francese ricoverata con me - lì ci bruciano. Devi uscire da qui, altrimenti l'unico modo che avrai per andartene è attraverso il camino del crematorio. Le tue ceneri finiranno nel fiume"». Neppure lei sa come, ma si riprende e viene dimessa. Torna a lavorare. La spostano in n sottocampo, in mezzo alla foresta che circonda Ravensbrück, a fare dei buchi senza senso, tanto per farla stancare. Lì addirittura si dormiva per terra, non c'era quasi più nulla da mangiare. I nazisti erano allo sbando, nel cielo volteggiavano sempre più numerosi gl aerei alleati che gettavano volantini con sopra scritto: "Resistete! Tra poco vi veniamo a liberare". Jolanda è pelle ossa, pesa 35 chili, è uno scheletro che cammina, ma stringe i denti, sente che la fine dell'inferno è vicina. Ce la può fare. Che i tedeschi fossero in difficoltà lo dimostrano anche i continui trasferimenti di prigionieri da un campo all'altro: «Un giorno - racconta - mentre torno dal lavoro vedo arrivare centinaia di donne nere. Credevo fossero africane, invece si trattava delle ebree trasferite da Auschwitz per essere gasate e bruciate. Una scena terribile, non credo di avere parole adatte a descriverla. Perché erano nere? Per la sporcizia».

La fine dell'incubo si avvicina: «Un giorno in fretta e furia - prosegue Jolanda - mi caricano con altri deportati su una camionetta e ci riportano nel campo principale, a Ravensbrück. L'aria era di smobilitazione, ma in un paio di baracche, soprannominate "baracche della morte", i nazisti avevano ammassato centinaia di prigioniere ammalate, con il tifo petecchiale, in fin di vita, rantolanti. Ma non potevano più ammazzarle loro, perché il tempo per fuggire era poco, i russi erano alle porte. Nella baracca faccio l'infermiera e conosco Marie, molto malata, cerco di confortarla ma mi muore fra le braccia». Jolanda fa una pausa, la commozione le stringe un nodo in gola. Non riesce a parlare per qualche minuto. Poi riprende: «Intorno alla fine di aprile la svolta. 

Mi si avvicina una prigioniera che mi sussurra "hanno lasciato aperto il portone, scappiamo". Avverto la mia amica Jaqueline e con lei fuggo». Fuori è il caos. Lungo la strada principale c'è di tutto: i soldati della Wermacht in fuga, i prigionieri del campo, i contadini... Arriva la notte e Jolanda sta ancora camminando verso la libertà: «Un gruppo di soldati italiani - ricorda con lucidità - ci fece un letto di foglie nella foresta che costeggiava la strada. Il giorno dopo ci svegliammo presto con le mitragliate degli aerei russi, che volavano a bassa quota sparando nel mucchio. Fu terribile. Ancora adesso mi sembra di sentire il rumore sordo degli spari». Nella fuga Jolanda e l'amica Jaqueline incrociano le camionette degli americani che le caricano e le portano in infermeria allestita in una ex caserma nazista lì vicino: «Ero pelle ossa, pesavo 30 chili, ero piena di piaghe. Mi disinfettano con il Ddt e mi curano». Jolanda si riprende e l'8maggio, quando la guerra è ufficialmente finita e i tedeschi sconfitti, gli americani caricano gli ex deportati sulle camionette per festeggiare la liberazione: «Ma noi eravamo tristi dopo tutto quello che avevamo visto e passato La voglia di festeggiare mancava». Jolanda viene presa in custodia dalla Croce Rossa, ma non sa dove andare: "Non sapevo dove fossero i miei. Avevo spedito loro una lettera all'inizio del mio internamento a Ravensbrück, ma non avevo più avuto notizie». Per circa sei mesi si ferma a Solingen e lavora nel campo degli inglesi. Poi la Croce Rossa scopre che i suoi genitori e i suoi fratelli si trovano a Mantova. Inizia il viaggio verso la città lombarda attraverso la Germania ancora in fiamme. Di notte dorme negli ex campi di concentramento, topi lunghi come cani le passeggiano a pochi centimetri dal volto. Dopo qualche giorno di viaggio arriva a Mantova, scopre drammaticamente che suo fratello è morto durante il mitragliamento di Porta Mulina. I suoi genitori vivono in via Galana. Quando li rivede scoppia a piangere. L'incubo è finito, ma il ricordo dell'orrore rimarrà per sempre con lei.

Emanuele Salvato


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