Bechis, sopravvivere all'orrore per raccontarlo. 'Dei giorni di prigionia ricordo la paura, continua e pervadente. Trovai un modo per non dormire mai, il risveglio era terrificante'

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Mantova Festivaletteratura BechisMANTOVA, 09 set. - La condizione drammatica del sopravvissuto, di colui che ce l'ha fatta a salvarsi vedendo morire amici e compagni, è stato il tema centrale attorno al quale si è sviluppato l'incontro di ieri sera a Palazzo San Sebastiano fra il regista argentino Marco Bechis, sopravvissuto alle torture e alla prigionia della dittatura dei militari argentini della fine degli anni '70, e il giornalista Gigi Riva.

Una condizione, quella del sopravvissuto, che, come ricordato nel corso del dibattito, non è certo nuova e ha colpito quasi tutti coloro che sono riusciti a salvarsi dalle atrocità dei campi di concentramento e sterminio nazisti, vedi Primo Levi che nei suoi scritti ha riproposto spesso il tema, ma anche chi si è salvato dai soprusi e dalle violenze di ogni altro genere di autoritarismo.

"Perché io, perché proprio io mi sono salvato?". Questa è la domanda che spesso perseguita i sopravvissuti e spesso una risposta non si trova.

Nel Centro e Sudamerica degli anni 70 e 80, di esempi di dittature violente e coercitive ce ne sono, putrtoppo moltissimi: dal Cile di Pinochet, all'Argentina di Videla fino alle dittature che hanno incendiato e insanguinato quasi tutti gli stati centramericani.

Nel libro La solitudine del sovversivo, Bechis affronta proprio questi temi, ripercorrendo anche i momenti più duri della sua prigionia sviluppatasi prima nelle carceri illegali di Buenos Aires, dove molto spesso si spariva per sempre, fino a quelle legali che, spesso, volevano dire salvezza. "Mi sono salvato - ha detto - anche perché la mia non era una posizione molto importante all'interno dei movimenti che si contrapponevano al regime. Facevo parte del gruppo, vivevo con alcuni di quelli che hanno agito e imbracciato le armi. In quegli anni, in Argentina, il senso di appartenenza a un gruppo ci faceva andare avanti, era fondamentale. E io, sì, ho fatto parte di un gruppo".

A "tradirlo", sotto tortura, una ragazza di cui si era innamorato, con la quale ha vissuto e che gli ha insegnato a caricare e maneggiare una pistola che lui però non ha mai usato. "Non si può parlare di tradimento in questo caso - ha detto il regista di Garage Olimpo e Hijos - perché il mio nome fu fatto da lei sotto tortura. Quando la rividi nel luogo in cui ero imprigionato e nel quale vivevo sempre bendato in una condizione di cecità forzata, fu lei ad abbassarmi la benda dagli occhi per la prima volta e non provai rancore o odio nei suoi confronti". Quegli attimi in cui Bechis riuscì a vedere il luogo della sua pprigionia furono sufficienti a fornirgli gli elementi per ricreare il luogo di prigionia nel film Garage Olimpo, dove la protagonista è una ragazza, ma dove non mancano riferimenti alla sua esperienza.

"Dei giorni di prigionia ricordo soprattutto la paura - ha detto - che non ti abbandona mai. Ricordo anche che trovai un modo per non dormire mai, per non finire in fase Rem, sognare e svegliarmi. Il risveglio era dolorissismo, angosciante. Stavo seduto, appoggiato al muro con la schiena e le gambe incrociate, così mi assopivo, riposavo, ma non inivo mai in fase rem".

Le torture con la picana, un pungolo elettrico che procurava dolori enormi, sono un altro dei ricordi che non lo abbandoneranno mai: "Mi mettavano su un tavolo di metallo e mi torturavano con questo pungolo". Così come i rumori: "Da bendato - ha detto - ho sviluppato molto gli altri sensi oltre la vista. Riconoscevo le voci dei carcerieri. Sentivo il suono di una pallina da ping pong, le catene dei prigionieri che si trascinavano dalle celle alle sale di tortura, le urla".

L'inferno della prigionia ha portato Bechis a considerare il suicidio come un'opzione: "Il dolore delle torture era fortissimo, imprevedibile e non sapevo come si sarebbe ridotto il mio corpo. Per questo un giorno trovai un pezzo di marmo affilato, tagliente e lo conservai per utilizzarlo come via d'uscita, per togliermi la vita e farla finita. Il sapere di avere questa opzione è stato consolatorio in quel contesto terrificante".

Emanuele Salvato

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