Vivere in 'zona rossa' con il desiderio di tornare alla normalitÃ
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- Creato 06 Marzo 2020
- Pubblicato 06 Marzo 2020
Virus. Numeri. Prima decine, poi centinaia, ora migliaia. Di questo si parla, da dieci giorni. Di numeri sbattuti in prima pagina, in televisione, sui social, sulla bocca della gente.
Così tanti che, nella confusione generale - tra i carrelli della spesa stra colmi e le scorte di Amuchina- ci siamo dimenticati persino di chiederci chi ci sia dietro quelle cifre, quale sia la loro storia.
Alessandro ha vent'anni e vive in uno dei paesi della famosa zona rossa. Ho avuto il piacere di parlare con lui in chat domenica mattina, tra un messaggio vocale e un altro.
Per lui, per loro è un'eterna domenica noiosa, di quelle che iniziano e tramontano allo stesso modo, senza che accada nulla. Ma senza bar, locali, partite, centri commerciali, cinema, eventi.
Spera che questa sia l'ultima settimana di "reclusione forzata" e che si torni al più presto alla normalità . E proprio la "normalità " - compreso il lavoro e le cose più stressanti che le appartengono- è la parola che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Ride, e dice che è uno che non riesce a star fermo, che la cosa che gli manca di più è poter viaggiare.
Allora gli chiedo come scorre una giornata nella zona rossa.
"Non è come i primi giorni. In tv fanno vedere ancora le stesse immagini"
Quelle che abbiamo visto tutti, fino allo sfinimento. Paesi deserti, saracinesche abbassate, e pochissime persone con il viso coperto dalla mascherina.
Mi racconta che questa domenica c'era una bellissima giornata di sole, e le ciclabili erano piene di persone. "Come se fosse estate", aggiunge.
Dice che la gente è stufa di stare in casa, che tutti vogliono tornare a fare le cose di sempre.
Più tardi, nel pomeriggio, andrà a fare una camminata in campagna con un amico. Nulla di che. Gli è permesso di muoversi soltanto nei paesi della zona rossa.
Mi racconta che qualche volta, di sera, si sono trovati nei parcheggi, tra ragazzi. Ride. "Abbiamo pure fatto due tiri a pallone, come quando avevamo quindici anni"
Così gli chiedo se hanno paura. Se ne hanno avuta. E mi risponde che certo, i primi giorni c'era un po' di preoccupazione per una cosa nuova, sconosciuta. Poi mi spiega di aver spento la tv, di aver lasciato perdere le notizie shock e gli allarmismi, e di essersi documentato su fonti più affidabili. Ora è tranquillo. Tutti lo sono, con i propri limiti caratteriali. "C'è sempre chi ha un po' più di ansia degli altri, come nella vita di tutti i giorni".
E aggiunge che in pochi vanno in giro con la mascherina, qualche anziano, qualcuno che ha qualche sintomo e la indossa responsabilmente per proteggere gli altri.
Ma niente panico.
Gli chiedo se c'è qualcosa che vorrebbe comunicare a noi che guardiamo da fuori, oltre quel nastro bianco e rosso che ci divide dai focolai.
Ci pensa un attimo. Poi dice che tutto è scoppiato in Cina, a Codogno, Vo' Euganeo, Lodi. Ma poteva accadere anche a Roma, Milano, Napoli. O in un altro paese europeo. Non sarebbe cambiato nulla.
"Il virus non ha nazionalità ". Non ci sono colpe da attribuire, dita da puntare.
E conclude "Penso che siamo tutti sulla stessa barca. In Europa, tra poco anche in tutto il mondo. Invece che farci la guerra a vicenda, ed escluderci, dovremmo rimboccarci le maniche e darci una mano"
Penso che in un mondo ideale dovremmo prendere d'esempio Alessandro e tutte le persone che stanno vivendo la quarantena nella zona rossa e dovremmo imparare ad essere cittadini più rispettosi e responsabili.
Intanto, per cominciare, disinfettiamoci le mani dai germi, ma soprattutto dai pregiudizi. Quelli sono più contagiosi.
Linda Auria
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